Recensioni

Epepe

AutoreFerenc Karinthy
Genereromanzo
AreaAttività Culturale
Casa editriceAdelphi
Anno2015
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“Odiava quella città, la odiava profondamente perché gli riservava solo sconfitte e ferite, lo costringeva a rinnegare e a cambiare la sua natura, perché lo teneva prigioniero, non lo lasciava andare, e ogni volta che provava a fuggire lo ghermiva e lo tirava indietro”.
 
La letteratura ungherese del secondo Novecento è caratterizzata a grandi linee da uno sperimentalismo che vede coinvolta in un processo di conflitto e tolleranza la cultura ufficiale del tempo, rappresentata dal realismo socialista - che, come è noto, ha coinvolto tutti i paesi dominati dall’Unione Sovietica -, e la cosiddetta cultura ‘sommersa’ legata a posizioni non allineate all’ideologia del Partito. Questo intreccio di rapporti porterà, verso la fine del secolo, ad una maggiore autonomia letteraria e a un ampia diffusione della critica letteraria.
In questo contesto si inserisce la formazione e la produzione letteraria di Ferenc Karinthy, nato e vissuto a Budapest tra il 1921 e il 1992. Figlio di Frigyes Karinthy, esponente di spicco della nuova letteratura ungherese e della rivista Nyugat (Occidente), Karinthy sin da giovane respira una mentalità aperta che guarda all’Occidente come ad una possibilità di rinnovamento della cultura ungherese. Linguista di formazione, durante gli studi Karinthy soggiorna in Francia, in Svizzera e in Italia. Ritornato a Budapest svolgerà la sua fiorente attività di scrittore e drammaturgo, oltre a entrare nella storia dello sport come campione di pallanuoto.
Il romanzo Epepe, dapprima pubblicato in appendice nel giornale nazionale Magyar Nemzet, e poi in volume nel 1970, è una delle opere più conosciute di Karinthy, con traduzioni in francese, in inglese e ora in italiano per iniziativa della casa editrice Adelphi (2015).
Il libro racconta la disavventura di Budai che, per cause ignote, invece di arrivare a Helsinki dove era diretto per un congresso di linguistica, approda in una grande città sconosciuta, che presto diventerà per lui una prigione da cui cercare di evadere utilizzando tutti i mezzi a disposizione.
Sceso dal pullman all’ultima fermata del tragitto che dall’aeroporto lo avrebbe dovuto portare in città, Budai si ritrova un albergo, circondato da una folla frenetica. Dopo una sorprendente attesa, Budai ottiene una camera e una somma di denaro in cambio del suo assegno in dollari che aveva infilato dentro il passaporto consegnato al portiere della Reception. Tutto succede rapidamente e soprattutto avviene tramite gesti, poiché nonostante Budai parlasse in finlandese, la lingua locale, “il portiere non lo capiva, allora provò in inglese, in francese, in tedesco, in russo, senza successo: il portiere rispose in un’altra lingua, che Budai non aveva mai sentito”. La lingua sconosciuta, le frasi scritte in lettere indecifrabili sui manifesti appesi alle pareti della sala di ricevimento dell’albergo e una valuta mai vista prima furono per Budai chiari segnali di non trovarsi affatto a Helsinki. Nonostante il tentativo di trovare una spiegazione a quanto accaduto, Budai non pervenne a nessuna plausibile ipotesi e tanto meno riuscì a trovare qualcuno a cui chiedere delucidazioni, magari in una delle tante lingue che conosceva. Budai, infatti, è un eminente linguista, specializzato negli studi sull’etimologia della parole, e nel corso del suo lavoro aveva studiato e imparato una trentina di lingue, oltre ad aver sviluppato un orecchio fine, capace di cogliere le varianti e le sfumature dei suoni pronunciati, ma quella lingua “singolare, esotica, inintelligibile, una sorta di balbettio inarticolato” non somigliava a niente di quello che lui conosceva.
La narrazione prosegue con i numerosi tentativi di Budai di individuare punti di riferimento spazio-temporali, ma anche linguistici, con l’aiuto dei quali orientarsi nell’assurda situazione in cui era venuto a trovarsi.
Così il lettore è introdotto sin da subito nell’atmosfera di questa misteriosa città che, osservata attraverso gli occhi del protagonista, appare come una grande metropoli simile e allo stesso tempo diversa a tutte le altre metropoli che aveva viste prima. Era una città densamente popolata costellata di palazzi vecchi e nuovi, grattacieli e basse casette, casermoni dalle facciate scrostate e dove troneggiava una torre di vetro e cemento armato, che si slanciava verso il cielo, e un’altra a cui si lavorava incessantemente. Come un fiume in piena le persone si riversavano sulle strade e prendevano d’assalto i negozi e le vetrine - ricchi di ogni merce-, dove si vendeva di tutto, i luoghi pubblici come la metropolitana, l’ospedale, le piazze, i parchi, nonché i luoghi di culto e di divertimento. Guardando i volti delle persone, era difficile stabilirne la razza o il gruppo etnico fosse prevalente. Neppure indicatori come gli alimenti o le condizioni meteorologiche sembravano fornire indizi su quella misteriosa città. Ma il tratto più notevole scoperto da Budai, era che la gente non parlava le lingue straniere, perlomeno non quelle a lui note e questo faceva sì che il tutto risultasse come “un’equazione di sole incognite” che, come noto, dal punto di vista logico è irrisolvibile.
Durante la sua esplorazione nella città che lo porterà a scoprire casualmente la metropolitana, Budai si dedica assiduamente all’analisi e alla decifrazione dell’idioma linguistico, sfruttando la sua enciclopedica conoscenza delle lingue del mondo e il suo metodo di indagine scientifica consolidato in molti anni di esperienza. La lingua parlata gli appariva come “una sequenza di suoni chioccianti e apparentemente inarticolati: ebebe o pepepe, etete o cose simili”, il loro sistema di scrittura sembrava “un insieme di scarabocchi vacui e privi di senso”, che gli ricordava non a caso le rune germaniche, che derivano dal gotico e significano ‘mistero’.
A rendere arduo il suo impegno era la vaghezza dei suoni e il fatto di non saper leggere nemmeno uno di quei segni, tranne i numeri arabi, che ogni tanto comparivano qua e là, ma la cui presenza non aiutava in alcun modo il linguista. Per di più Budai ebbe l’impressione che quelle persone pronunciavano parole vuote e che nessuno stesse a sentire nessuno, tant’è che “nella sua mente balenò il dubbio assurdo che avessero tante lingue quanti erano”.
L’autore descrive abilmente, adottando lo stile del discorso indiretto libero, anche lo stato d’animo di Budai, che pur mantenendo la fiducia nella sua capacità organizzativa e di ragionamento, vive una situazione complessiva di smarrimento ed estraniamento di fronte alla realtà in cui è stato immerso involontariamente. Facendo da spettatore al teatro del quotidiano metropolitano, il protagonista del romanzo ricorda alcuni tratti della figura del flâneur parigino che vaga tra la folla osservando in maniera critica quella gente inespressiva, una massa umana enorme che fluiva in tutte le direzioni intenta a perseguire il proprio interesse.
Inoltre, Ferenc Karinthy, nelle pagine di questo romanzo, sembra introdurre, in maniera suggestiva, immagini filmiche della realtà dei paesi sottoposti al dominio del comunismo, una per tutte l’immagine delle lunghe code che gli abitanti della città misteriosa erano costretti a subire per ogni incombenza e l’atteggiamento arreso, indifferente ed egoistico con cui ognuno aspettava il proprio turno.
Epepe, oltre a ciò, è un romanzo che richiama costantemente l’attenzione del lettore sul tema del linguaggio che fa da nervatura a tutta la narrazione. In questo senso è significativa la scelta dell’autore di riflettere sul linguaggio da un punto di vista narrativo, in un periodo, il ‘900, in cui questo tema è diventato oggetto centrale dell’indagine filosofica e gli studi di linguistica hanno visto un consolidamento e una fiorente produzione scientifica. Così nozioni fondamentali della linguistica e della filosofia de linguaggio come, per esempio, l’idea della ‘comunità linguistica’, rappresentata dalle persone che parlano una determinata lingua e ne condividono le norme d’uso (Graffi-Scalise, Le lingue e il linguaggio)o l’idea che “l’essenza del linguaggio si presenta nel dialogo, nel parlare l’uno con l’altro, vale a dire che è legata a ciò che gli interlocutori hanno in comune” (Coseriu, Il linguaggio e l’uomo attuale),stanno alla base delle pagine del libro e, attraverso una descrizione coerente, vengono problematizzate, fornendo ulteriori spunti e nuovi interrogativi per riflettere sulla relazione che lega il linguaggio a noi in quanto esseri parlanti, ma anche al mondo che ci circonda e con il quale immancabilmente ci relazioniamo.

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