Recensioni

Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”;

AutoreDonatella Di Cesare
Generesaggio
AreaAttività Scientifica
Casa editriceBollati Boringhieri
Anno2014
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La recente pubblicazione dei Quaderni Neri ha riacceso il dibattito attorno alle posizioni antisemite di Heidegger e al suo rapporto con il nazionalsocialismo. Il testo di Di Cesare, vice-presidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, entra nel merito filosofico della questione evitando così di cadere in  sterili  contrapposizioni  ideologiche. Di fronte alla  complessità  teoretica  rappresentata  dal pensiero  di  Heidegger,  il  rapporto di questi  con  l'antisemitismo richiede un'analisi  che  possa metterne in luce la non estemporaneità dei riferimenti all'ebraismo. Riferimenti che dovranno essere compresi nel contesto dell'analisi che si sviluppa nei Quaderni così come in relazione al  pensiero heideggeriano nel suo complesso. In tal senso è necessario superare tanto i "difensori a oltranza" di Heidegger quanto gli "implacabili procuratori" che, con E. Faye, optano per la "proscrizione perpetua" (p.16) delle opere heideggeriane. Analogamente si deve superare la posizione per la quale Heidegger non avrebbe fatto altro che sussumere filosoficamente l'antisemitismo presente nel senso comune della Germania coeva, cadendo così nella "medietà del si" (cf. p.11). Questa posizione vedrebbe nel legame tra filosofia e antisemitismo un esito puramente contestuale, dettato da ragioni estranee al pensiero medesimo. Tesi tutt'altro che perspicua come mostra Di Cesare indagando (cf. Cap. 2) il rapporto organico tra pensiero e antigiudaismo: da Lutero a Schmitt, passando per Kant e Hegel, la speculazione -teologica, politica o filosofica- ha trovato nel confronto con l'ebraismo un momento fondativo. Fondazione e legittimazione di sé avvenuta a scapito dell'ebraismo il cui diniego, prima che esprimersi nella prassi, si costituisce a livello teoretico. Il "rapporto tra l'Essere e l'Ebreo" in Heidegger, pur assumendo caratteri specifici, è dunque "tema non nuovo" (p. 96) e rimanda a un nodo che attanaglia la filosofia tutta. Nodo linguistico che chiama ad interrogarsi sul passaggio dall'ebreo, particolare concreto, all'Ebreo, “collettivo sostantivato” (p. 211). La costante ravvisabile nel rapporto tra filosofia ed ebraismo è di tipo formale. E' il costante imbarazzo, cui segue ostilità, fronte ad una condizione che non pare riconducile alle categorie del pensiero occidentale. Al di là che si legga l'ebraismo come "mera esteriorità", "inchiodato all'eteronomia" (rispetto alla Ragion Pura) o ambiguo -poiché non è Stato, pure è popolo-, resta la recezione dell'ebraismo come "quer" -trasversale- rispetto al pensiero. Tale "disprezzo per il caso particolare" (p. 208), come scriveva Wittgenstein nel Libro Blu, ha spinto la filosofia a respingere l'eterogeneità del reale mediante la sua riduzione a fantoccio metafisico. Un'immagine ci teneva prigionieri, scriveva Wittgenstein in Ricerche, ed è "l'Ebreo figurale" (p. 214), a tenere prigioniera di se stessa la filosofia. Il riferimento a Wittgenstein permette all'autrice di individuare nell'antisemitismo metafisico una spia della difficoltà a superare "il pensiero per generalità". Di Cesare cerca quindi di comprendere perché, e con quali conseguenze,  Heidegger abbia assunto una categoria metafisica per procedere alla propria proposta filosofica che, come scrisse Derrida, si vorrebbe "distruzione dell'ontologia" (p. 85). Assunzione tutt'altro che marginale poiché è sulla scorta della resa sostanzialista dell'Ebreo che Heidegger perviene a uno schema dualistico con cui leggere il conflitto mondiale in corso come nuova e decisiva tappa della storia dell'Essere. In tale schema l'Ebreo è visto come "scisso dall'Essere" (p. 216), “minaccia mondiale” in quanto "senza mondo" cioè alieno alla condizione di gettatezza da cui l'esserci può pervenire all'autenticità. Garante del primato dell'ente, l'Ebreo privo di “radici e vincoli” può essere arginato solo dalla comunità fondata su Blut und Boden riconosciuta come "custode dell'Essere" (pp. 100-2). "Per rimettersi dalla metafisica (...) occorre rimettersi dall'ebraismo" (p. 216) il quale, però, è individuato su base metafisica. La contraddizione ritorna e informa di sé tutta la "semantica" che "cerca di definire l'ebreo"(p. 97) e che, così facendo, ripropone il pensiero per generalità sopra ricordato. Nell'accerchiamento semantico, nell'ansia di pervenire a una definizione, si trova il fil rouge che lega l'antisemitismo metafisico con l'ingranaggio giuridico nazista. Legame che non si risolve in identità e che è pur tuttavia sufficiente a rendere evidente come politica e ontologia non si muovano in dimensioni differenti. A partire  dal suddetto schema Heidegger potrà declinare il "razionalismo", già combattuto a Davos, come "macchinazione" ravvisabile sia nelle figure filosofiche di Husserl e dei neokantiani (cf. p. 154; 95) che in quelle politiche di bolscevismo e capitalismo. Tale impostazione permette di comprendere cosa Heidegger intendesse, a seguito della Kehre, con "l'Essere come evento" (p. 83). Se l'Ebreo è quintessenza del pensiero astratto e ostacolo al disvelamento dell'Essere, è perché quest'ultimo viene pensato come possibile solo a partire dalla "stabilità del radicamento" (p. 103). La definizione metafisica di Ebreo è dunque indice di un pensiero che riconosce sì l'esserci come apertura ma solo per risolvere tale apertura come ritorno a una presupposta arché. Il pensiero heideggeriano si rivela così "diffidente dell'infinito" (p. 273) non riconoscendo "la portata messianica" che, come scrisse Arendt, "ogni nuovo inizio" e ogni agire porta con sé (p. 275). I limiti di questa concezione dell'Essere, proprio rispetto agli intenti antimetafisici di Heidegger, si sono tragicamente delineati nella Shoah, analizzata dall'autrice, onde comprenderne il risvolto ontologico, mediante il duplice riferimento a Parmenide e P. Levi. Se de i Muselmänner Levi scrive che "si esita a chiamare morte la loro morte" è perché al deportato è stata sottratta  la  condizione  dell'esserci, ciò che lo differenzia dall'ente,  dunque la "morte  come possibilità più propria" (p. 242), riprendendo la terminologia di Essere e tempo. Il "radicamento", che Heidegger auspicava realizzarsi nel nazismo, si è risolto con l'annullamento dell'esserci perché l'Essere è stato inteso nel solco dell'identico parmenideo ove il non identico è condannato al non essere e l'alterità, espulsa dall'umanità, diviene "figuren", come i nazisti appellavano i cadaveri dei deportati. La verità come disvelamento si ricongiunge così al nietzschiano ritorno alla natura che offende la possibilità di pensiero dell'uomo, la sua capacità -pure intravista da Heidegger a partire da una concezione non bellica del polemos (cf. p. 185)- di pensarsi a partire dall'alterità. Ma Heidegger non seppe leggere la relazione tra "differenze ontiche" e "descrizione ontologica" (p.
245) preferendo reificare il proprio schema in cui la Shoah si presentava come inevitabile destino dell'entificazione, (cf. p. 123) climax del pensiero deietto, auto-elidersi dell'ostacolo ontico, così rimosso. “La purificazione dell'Essere è diventata annientamento” (p. 217) proprio perché l'Essere è stato risolto nell'"autoctonia" (p. 106), “l'autenticità” nel ritorno “verso se stesso” (p. 273). E' tale prospettiva a rendere Heidegger teoreticamente cieco fronte al significato dell'annullamento dell'esserci nei campi della morte. Cecità, suggerisce l'autrice, speculare alla sua ignoranza, filosofica prima che linguistica, dell'ebraico la cui rimozione è dettata dall'assunzione del greco a "urtext (...) grund"; "barriera" fondazionalista nuovamente in contraddizione con la prospettiva antimetafisica della "destruktion" (pp. 264, 265). Dall'ebraico, viceversa, è possibile delineare un'alternativa ai paradigmi metafisici qui riscontrati poiché nella scrittura del Tanak, a partire dal Tetragramma, "non è iscritta un'origine" (p. 269) ed è l'azione futura a farsi carico del significato presente e della redenzione del passato, come suggerisce la lettura benjaminiana dell'Angelus Novus di Klee. La scultura di R. Paine nei giardini del Museo d'Arte di Gerusalemme rappresenta un albero le cui radici sono slanciate al cielo. Lo sguardo a questa scultura permette di comprendere la differenza tra l'ebreo come colui che passa (ivrit, da ever, cf. p. 168) e la figura metafisica, distillato della teologia della sostituzione, dell'ebreo errante. Le radici protese al cielo, suggerendo la possibilità di un diverso abitare, di una gettatezza che non si risolva in finitezza, permettono di cogliere il nesso tra la critica di Di Cesare ai Quaderni e le sue analisi sul Sionismo e il rapporto alla terra.  Nel groviglio delle radici, tra loro intrecciate e pure distinte, troviamo il rimando alle infinite diversità che, come nell'immagine wittgensteiniana della fune, costituiscono le "somiglianze di famiglia" delle prassi umane (p. 254). L'analisi di Di Cesare sollecita una ripresa del confronto con i testi heideggeriani che possa permettere alla filosofia di superare la grammatica dell'ontologia, superstizione dell'identità e del concetto, rivelatasi conditio di ogni antisemitismo metafisico.
 
Cosimo Nicolini Coen