Recensioni
Domande alla Torah. Semiotica e filosofia della Bibbia ebraica
Autore | Ugo Volli |
Genere | saggio |
Area | Attività Scientifica |
Casa editrice | L'Epos |
Anno | 2012 |
A chiunque si approcci ancor oggi al Mahshevet Israel (pensiero ebraico) risulterà evidente il persistere di un'impronta di derivazione "continentale". Senza negare l'importanza delle strumentazioni teoriche provenienti da questo approccio, risulta tuttavia necessario provare a sollecitare Torah e Talmud a partire da domande e riferimenti altri, come mostrano alcuni lavori di J-M Salanskis (Paris, 2004). E' in questo senso che il lavoro proposto da Volli viene ad acquisire tutta la sua pregnanza. L'analisi di Volli ha come paradigma la semiotica, disciplina inaugurata da C. S. Peirce e riproposta in Italia, su di un livello che si vuole scientifico e non soltanto filosofico, da U. Eco. E' proprio a partire dalle tesi di Peirce, secondo il quale il pensiero si risolve in una catena segnica (semiosi infinita) costantemente messa in moto da un atto interpretativo, che Volli viene a rileggere la radice di senso del Tanak, prima, e della Torah SheBe'alPe (Torah orale), poi. Se con Peirce diremo che la verità di un concetto si dà nella totalità di effetti condizionali che questo potrebbe venire a produrre, ne viene che saremo nelle condizioni di individuare il senso della "lettera" della Torah non già nel suo immediato contenuto filologico bensì negli ambiti di risposta che i suoi lettori verranno ad agire. La catena di interpretazioni diviene catena di comportamenti e la verità, in questo caso specificata nella dimensione di senso del Tanak, viene a disvelarsi nell'esistente a partire da ogni singolo ambito di risposta degli interpretanti. Da tali premesse potremo individuare il nucleo di senso della Torah su due livelli: in primo luogo da quello testuale stesso, dunque dalla struttura con cui la narrazione biblica viene a presentarsi; in secondo luogo a partire dall'aspetto pragmatico, ovvero dalle modalità di comprensione, verso cui quella stessa struttura sintattica viene a condurci. L'analisi verrà a mostrare come questi due livelli siano l'uno in funzione dell'altro. In riferimento al livello testuale parleremo della Torah come dispositivo semiotico attivo, "capace di specificare al suo interno le istruzioni per il proprio uso" (p. 18). Ne viene che, se nelle modalità di autocomprensione ebraica del testo biblico "la semantica si fa pragmatica" (p. 82), ovvero il significato si radica nell'uso, è non già per un atto interpretativo arbitrario condotto dal lettore sul testo, bensì perché il testo stesso, la sua struttura sintattica, si vuole propedeutica a questo tipo d'uso, ovvero propedeutica a un significato in divenire. E' dunque in virtù di tale intrinseco nesso tra sintattica e pragmatica che si viene a dare il contenuto, la semantica, della Torah. In questa prospettiva viene a rendersi necessaria quella che Volli definisce una "lettura che rispetti la natura di testo denso" (p. 98), in grado di farsi carico del significante del testo prima ancora che del significato. Entriamo così nel merito di alcune attribuzioni che l'autore, a partire dalle categorie della semiotica, riferisce al testo biblico. Il primato del significante, infatti, consiste: 1) in una precipua teoria dei nomi, 2) in una valorizzazione dell'aspetto materico del testo che non è mera forma, atta ad ospitare un contenuto preconfezionato, bensì matrice di senso non disgiungibile dall'aspetto semantico. Per quanto concerne il primo punto (cf. Cap. secondo) si afferma che nel Tanak il nome "non è pensato come puro suono arbitrario (p. 50) poiché, così come per la logica nel Tractatus di Wittgenstein, l'ebraico è lingua "la cui struttura corrisponde a quella del mondo" (p. 113). E' sempre il riferimento al Tractatus a permettere di comprendere in che senso, poi, nel Tanak il nome "non sarebbe un puro nome" bensì "un dispositivo di senso". Questo è particolarmente vero per il nome del Nome, ma potrebbe essere applicato anche per Yako'ov etc. Come nel Tractatus i semplici logici contengono necessariamente la totalità delle loro possibili combinazioni così nel Tanak il semplice nome rimanda ad altro da sé riconnettendosi al tessuto semiotico del Tanak. Il secondo punto è ripreso da Volli a partire dalla distinzione di Peirce tra type (legge di ricorrenza del segno) e token (ricorrenza materica del segno). Scrive infatti l'autore che la sacralità della Torah viene assegnata "non al type ma al token, o piuttosto a un type (...) in cui entra la materia dell'espressione" (pp. 37-38). Tale tesi, lungi dal risolversi in mero tecnicismo, permette a Volli di prendere una posizione in controtendenza rispetto alla linguistica contemporanea dove il significante è relegato ad aspetto secondario. L'esercizio di comprensione semiotica a cui la Torah ci chiama, dunque, si potrebbe tradurre, a livello filosofico più generale, nella ricerca del senso non più operata a partire dal segno assunto in funzione di rimando a un oggetto (cf. p. 154) bensì a partire da un segno chiamato a "generare (...) nuovi oggetti" (p. 104). Il Tanak riguadagnato in prospettiva semiotica permette così di superare il dogma logicista, in ultima analisi ancorato a una metafisica platonizzante, che, con Frege, assumeva il significato come esistente in un ambito a sé stante. Tali posizioni, che hanno in ambito matematico una loro legittimità, vengono a trasformarsi in dogmi metafisici quando applicate all'insieme aperto dei giochi linguistici, come ben analizzava Wittgenstein in Ricerche. La semiotica deve uscire dal paradigma del significato onde superare l'incapacità di riconoscere la difformità delle dimensioni di senso apportate dal ruolo del significante. La Torah ha dunque un ruolo nella semiotica perché riporta questa con i piedi per terra, conferendole quell'"attrito", cioè quel rapporto alle lingue naturali, di cui Wittgenstein andava alla ricerca. Questo passaggio evidenzia come l'usuale percezione del Tanak sia ancora fuorviata da una tradizione filosofica che vuole riconoscere nel Tanak un contenuto metafisico per idolatrarlo (nel significato) o, specularmente, rifiutarlo. Percezione ben lontana da quella rigorosa ermeneutica che i tannaiti misero in opera. Risulta chiaro che, una volta avanzata tale ipotesi semiotica (non riduzione del segno a rimando verso un oggetto) ne viene la necessità di evitare una ricaduta in quell'ambito di "libere variazioni sul tema" (p. 141) che preoccupa Eco. Ricaduta che non si dà nel dispositivo semiotico ebraico, scrive Volli, in virtù di quella complessa struttura di autocomprensione, il Talmud, che dà il senso della razionalità di ciò che prima si richiamava sotto il nome di ermeneutica. Scartata una deriva interpretativa "priva di responsabilità nei confronti del testo" (Ibidem) resta da illustrare l'effettiva dimensione di senso che, sulla scorta di questa lettura, si verrebbe ad aprire. Qui ritroviamo l'iniziale distinzione tra livello di struttura del testo ("dispositivo semiotico") e di radicamento del significato nell'uso (la pragmatica che si fa semantica) precedentemente posta. Il primato del significante si attua, infatti, attraverso l'organico inserimento del Tanak nel contesto prassico e comunitario di Israel. Semiotica risolta in antropologia e significato dissolto davanti alla forza bruta del contesto? Niente affatto. I riferimenti al pragmaticismo del secondo Peirce, da una parte, e alla polemica di Wittgenstein contro il linguaggio privato (cf p. 185), dall'altra, mettono in evidenza come intendere il significato -in questo caso quello biblico- a partire dall'uso significa assumere una precisa posizione filosofica. Il linguaggio viene ad essere inteso non già come rivelatore, bensì come ordinatore. Volli assume tale posizione a partire da un commento critico a Bereshit (Genesi) ma analogamente si potrà dire a un livello che chiameremo 'micro': nel Seder di Pesach (La cena-lettura pasquale, cf. p. 206) la performance semiotica dei partecipanti pone un ordine (Seder), dunque un senso, altrimenti non esistente. Pane azzimo ed erbe amare sussistono anche senza la lettura del Seder ma quella lettura, dunque l'attuazione sincronica di parole e gesti, dispone pane azzimo ed erbe amare in "forma di découpage" (p. 229) mediante un atto di distinzione (dalla radice di Kadosh, distinto) semiotica che li pone in essere in quello che potremmo definire, con Wittgenstein, nuovo gioco linguistico. La creazione dell'"Agente semiotico attivo" (p. 255), come appella Volli in chiave anti aristotelica l'autore che la Torah si autoascrive, viene così reiterata nel quotidiano dalla prassi di Israel. Riconsiderando alcuni dei punti visti sembra che l'attribuzione del nome come atto non arbitrario sia la maggiore provocazione che la semiotica della Torah lancia alla linguistica moderna. Se nella Torah tale non arbitrarietà è risolvibile a partire dal riferimento a una lingua "modello del mondo" (p. 273) resta la domanda di come eventualmente intendere fuori dalla semiotica della Torah un ambito linguistico non arbitrario. In tal senso dovremmo forse ripensare a quell'originario rapporto tra Segno e Oggetto che in Peirce, secondo alcuni interpreti, viene ad essere analizzato sotto la categoria di iconismo (Tone e firstness). E' possibile che la semiotica della Torah permetta di ripensare l'iconismo di Peirce come categoria per domandare del senso originario del linguaggio?
Cosimo Nicolini Coen |