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Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein
Autore | Hilary Putnam |
Genere | saggio filosofico |
Area | Attività Scientifica |
Casa editrice | Carocci |
Anno | 2011 |
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La decisione di Putnam, filosofo prevalentemente dedito alla ricerca in ambito epistemologico e vicino alle posizioni del pragmatismo, di dedicare un testo al pensiero ebraico può apparire estemporanea e dettata più da necessità biografiche (l'autore si dichiara ebreo praticante) che non da ragioni legate al suo ambito di studi. Pure l'accostamento, presentatoci nel sottotitolo e condotto lungo tutto il corso del testo, tra i tre grandi nomi del '900 ebraico e Wittgenstein permette di capire che l'operazione di Putnam non si risolve in un "tentativo di chiarire a un lettore non addetto ai lavori cosa dicono questi tre grandi pensatori ebraici" come egli stesso dichiara nella prefazione. Se l'autore perviene ad individuare un legame tra Rosenzweig, Buber e Levinas da una parte, e Wittgenstein dall'altra, è perché la sua analisi del pensiero e della pratica ebraica, lungi dall'essere slegata dalle sue posizioni filosofiche è, invece, da queste ultime resa possibile. In questo senso, come M. Dell'Utri e P. Fiorato fanno notare nel saggio in appendice, è il realismo antiriduzionista a cui Putnam è pervenuto in ambito epistemologico ad avergli reso evidente "quanto illusorio possa rivelarsi il tentativo di ricondurre l'intera complessità del reale al livello della materia fisico- naturale" (p.116). In altri termini se la fisica rimane il linguaggio adeguato per la descrizione della materia in movimento, non essendo quest'ultima paradigma esaustivo della realtà tutta, il suo linguaggio non può rivendicare valore di verità rispetto a linguaggi che non si riferiscono alle proprietà della materia in movimento. Tale posizione, nota come pluralismo epistemologico, viene ravvisata da Putnam anche in Wittgenstein il quale, discostatosi dal fisicalismo del Circolo di Vienna, giunse a negare la possibilità di una riconduzione gerarchica della pluralità di forme linguistiche essendo queste tutt'al più legate tra loro da "un'aria di famiglia", secondo la nota asserzione delle Richerche. Proprio la posizione di Wittgenstein rispetto alla religione si rivela per Putnam dirimente nel momento in cui, per entrambi, "il problema (è) di combattere idee semplicistiche su cosa voglia dire essere religiosi, sia da parte di persone anti-religiose sia da parte di persone religiose" (p.15) dove tale semplicismo è dettato da un fraintendimento della natura del linguaggio religioso. Quest'ultimo, sostiene Putnam sulla falsariga delle Lezioni sulla credenza religiosa di Wittgenstein, è soggetto a illusione metafisica nel momento in cui si pensa come teoria anziché come prassi, ovvero come linguaggio finalizzato alla descrizione o contemplazione di Dio in luogo d'essere forma di vita poiché, con Wittgenstein, "soltanto nella corrente della vita le parole hanno significato" (p. 23) e dunque, chiosa Putnam, "per una persona religiosa teorizzare su Dio non è (...) pertinente" (p.16). Diviene così evidente che la svalutazione neopositivista del linguaggio religioso in quanto linguaggio privo di referenze empiricamente comprovabili, viene meno nel momento in cui valore del linguaggio religioso si rivela essere non il riferimento ad una qualsivoglia entità, bensì la capacità di produrre effetti sulla vita degli appartenenti a quello specifico gioco linguistico, i quali, conformemente alla tradizione ebraica, saranno appellati praticanti piuttosto che credenti ed ortopratici piuttosto che ortodossi. La teologia in ambito religioso così come l'ontologia in ambito filosofico si rivelano sintomi di quella stessa malattia linguistica che, venendo a rispondere alla domanda sull'essenza, conduce l'uomo a "imbrigliare la materia" la quale, di par suo, "sfugge di continuo alle griglie teoriche che le si vogliono imporre" (p.118). Spostare l'attenzione dall'essenza al divenire, dalla res alla praxis è dunque la proposta filosofica che Putnam scorge tanto in Wittgenstein quanto nel Rosenzweig del Il nuovo pensiero, così come nell'Ich und Du di Buber e nella figura dell'autrui in Levinas. L'antitesi a quella che viene definita l'"ontoteologia" (p. 17) si risolve nella comune ricerca di un nuovo punto di partenza per una filosofia che possa dirsi "esperiente" (p. 112). Il superamento della prospettiva ontologica, può affermare l'autore dopo aver egli stesso abbandonato una posizione riduzionista, è necessario perché il linguaggio descrittivo, che si vorrebbe con Levinas, "tentativo di vedere il mondo come una totalità, dall'esterno" (p. 78) e che è per quest'ambizione caratteristico di ogni ricerca sull'essenza, si rivela fuorviante. La presunta neutralità del linguaggio descrittivo: è questa l'illusione metafisica che la filosofia si trova in ogni epoca ad affrontare. Sulla scorta della riflessione di Levinas, Putnam individua nell'hinneni, pronunciato da Abramo in risposta a Dio e adIsacco, un atteggiamento proposizionale alternativo poiché hinneni, "contrariamente ai sinonimi ebraici di -qui- kan e po, non può comparire in una proposizione meramente descrittiva" e, viceversa, esso "compie l'atto linguistico (...) di presentare" (p. 80) inscrivendo così il soggetto in una posizione di passività, di apertura all'altro che, sintetizza l'autore, ha permesso a Levinas di superare i presupposti tanto dell'ontologia husserliana quanto del fenomenismo di Carnap, obbligando a cogliere in ogni atto conoscitivo l'esito di una primigenia relazione all'altro. Assumere l'atteggiamento proposizionale ereditato dal Tanak viene a significare rovesciare l'idea socratica secondo cui, come si legge nel Fedone, la filosofia è esercizio di morte e dove, nelle parole di Rosenzweig, il filosofo costringe l'oggetto "a fermarsi ed a restare immobile" formandosene un'"immagine statica" (p. 37-38), dunque avulsa dal divenire temporale. Viceversa la parola, riguadagnata a partire dal paradigma dell'hinneni, diviene incognita consegnata alle infinite combinazioni che si dipanano nel tempo e negli incontri potendosi così riconoscere nel suo carattere meramente umano e dismettendo i panni metafisici che la volevano, nella definizione di T. Nagel, "punto di vista da nessun luogo" (p. 87). Putnam, attraverso il filtro delle tesi di P. Hadot sulla filosofia antica, legge nella combinazione di mitzvot e studio che caratterizza l'ebraismo una prassi linguistica in grado di plasmare l'uomo. Se infatti Buber afferma che il "mondo dell'esso" si trova trasformato "attraverso l'effetto (...) della ricorrente relazione Io-tu" (p. 71) ciò significa che, al di là di cosa si possa venire ad intendere, al variare dei contesti, con relazione Io-tu, rimane, come carattere saliente della pratica religiosa, così come delle scuole filosofiche dell'antichità, l'aspetto performativo. Il linguaggio come prassi è il vero filo conduttore del testo che permette di comprendere perché Hadot affermi che solo la lettura delle Ricerche gli avrebbe permesso di comprendere appieno il valore filosofico delle descrizioni che Filone d'Alessandria tracciava delle pratiche comunitarie degli Esseni. Il passaggio dall'atteggiamento proposizionale descrittivo a quello relazionale così analizzato mette in luce le basi stesse del linguaggio, dunque i presupposti del nostro agire e comprendere poiché, come apprendiamo da Wittgenstein, l'aspetto formale proprio a ogni gioco linguistico è la necessità di una regola la quale, a sua volta, non sussiste se non a partire da un mutuo accordo, frutto di una contrattazione tra più soggetti. Un modo differente per dire, con Levinas, che la "soggettività -l'autrui- è generatore di ogni senso" (p. 85). Si comprende allora la portata etica dell'argomento wittgensteiniano contro il linguaggio privato, contro una concezione solipsistica della conoscenza. Tale primogenitura della relazione, dunque della grammatica, sulla descrizione, dunque sulla logica, non mette in questione la validità di qualsivoglia linguaggio descrittivo, la sua capacità di riferirsi all'ente, ma viene a ricordarci che tale descrizione si dà sempre a partire dall'interno di una determinata prassi linguistica, da cui la definizione di realismo interno in riferimento alle posizioni di Putnam. I termini di materialismo e religione o, declinando in prima persona, di ateo e praticante, non sono più letti come antinomici, bensì come espressione di contesti linguistici differenti la cui chiarezza ed efficacia sono propriamente date dalla consapevolezza della rispettiva specificità. L'assenza di un rapporto gerarchico tra questi linguaggi, l'impossibilità di ridurre l'uno all'altro, mette in luce il carattere polimorfo della realtà confermando le tesi pluraliste in ambito epistemologico. Riuscire a praticare differenti linguaggi significa dunque approssimarsi al carattere eterogeneo del mondo vivendone in prima persona la complessità. Posta tale distinzione, in parte già ravvisabile nella nozione kantiana dell'uomo come "cittadino di due mondi", rimane, per entrambi i linguaggi, la necessità di una cura antimetafisica. Articolare il linguaggio religioso privandolo virtualmente del riferimento alla nozione di Dio, così come riuscire a descrivere la materia senza far riferimento alla nozione di sostanza, è la sfida filosofica che, mediante la rilettura della pratica ebraica, Putnam ci consegna.
Cosimo Nicolini Coen
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