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La logique du Talmud

AutoreMoshé Hayyim Luzzatto
Generesaggio
AreaAttività Scientifica
Casa editriceEclat
Anno2013
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Rav Lederman, dottore all'EHESS e autore di La philosophie des Lumières dans l'exégèse biblique de Moses Mendelssohn (Paris, Honoré Champion, 2013), ha curato una nuova traduzione della Derech Tevunot del Ramhal, acronimo per Rav Moshé Haim Luzzatto. L'opera presenta un evidente interesse per il pubblico italiano a causa della nascita e formazione padovana del  Ramhal,  che  molto  peserà  nell'orientarlo verso  un ebraismo aperto alle arti liberali ereditate dal Rinascimento. Luzzatto si distinse, infatti, anche per la produzione di opere di retorica e per composizioni teatrali che anticipano temi caratteristici  dell'Haskalà. Uscita  in  Francia  per  l'Editions de l'éclat, La  logique du Talmud propone di guardare alla dialettica talmudica come percorso e cammino (Derech) verso l'intelligenza (Tevunot), nella misura  in  cui  l'analisi dei passaggi halakici viene portata  avanti  attraverso  l'“universalité  de  la  méthode"  (p.  40).  Le  note  critiche del curatore permettono di cogliere nell'individuazione di tale metodo, derivato dal filosofo Petrus  Ramus,  il risultato  dell'educazione  umanista  del   Ramhal. Nell'introduzione viene infatti precisato che Luzzatto "ne  parle pas le langage métaphorique de l’ésotérisme, mais celui de la raison" -e che-  "son oeuvre est imprégnée de logique" (p. 15).  Pur non volendo cogliere in Derech Tevunot una produzione scissa dal percorso di studi del Ramhal, è pur vero che l'opera si presenta con finalità specifiche. In comune con gli altri scritti, sia precedenti che successivi, vi è il rigore linguistico, la necessità di sintesi. Carattere peculiare di Derech Tevunot sarebbe invece la finalità: lungi dal volersi approcciare ai temi cabalistici del Nome,  Ramhal viene qui a mostrare la struttura logica sottostante tanto alla Mishnà quanto ai successivi commentari. Struttura che, una volta esplicitata, permetterà ad ogni ebreo di inscriversi attivamente nella processualità halakika. Chi predilige il Ramhal per il suo contributo alla mistica sbaglierà a scorgere nell'opera un compendio pedagogico di  secondario valore.  Il metodo  logico  individuato dall'autore  nelle  pagine  del  Talmud  -afferma Lederman- caratterizzerebbe, viceversa, tutte le analisi del Ramhal. Se il contenuto non è indipendente dalla forma allora la struttura arborescente (cf. p. 17; 42; 91; 95) che permette al Ramhal di chiarificare le discussioni di Mishnà e Gemarà, permetterà al lettore di accedere al pensiero del Ramhal stesso. L'esigenza che avrebbe mosso il Ramhal alla stesura dell'opera non differirebbe da quella degli altri grandi sistematizzatori della tradizione orale che cercarono di rendere organico e accessibile un materiale di per se stesso restio ad ogni categorizzazione. In questo  senso  Luzzato  afferma  che "puisque l’océan du talmud est devant nous (...) j’ai choisi d’y établir mon édifice" (p. 33): soltanto a partire da un forte ancoraggio logico potremo comprendere, e apprezzare, la dialettica che lega la catena di interpretazioni dei Tannaim, degli Amoraim sino ai Tosafisti. Se viceversa apriremo le pagine talmudiche sprovvisti di ogni riferimento, saremo sommersi da un flusso di parole di cui continuerà a sfuggirci la portata. Come il Rambam scrisse Hakadamot HaMishnà per sconfiggere l'opposizione dei Karaiti alla  legge orale così il Ramhal  scrive Derech Tevunot per riportare alla lettura farisaica dei testi biblici la comunità sefardita di Amsterdam che, vissuta per almeno due generazioni nel marranesimo, aveva smarrito l'approccio rabbinico alla Torah. Derech Tevunot, però, non si riduce ad essere né un'introduzione al Talmud né una summa della codificazione halakika, sul modello del   Rambam del Mishné Torà e dello Shulchan  Aruk di Rav.Y. Caro. L'edificio al centro del mare talmudico a cui mira il Ramhal, infatti, è costruito sulle fondamenta della logica di Ramus e non su di una sintesi precostituita dei contenuti del Talmud stesso. Ramhal vuole offrire gli  strumenti  razionali  per  accedere a un  pensiero, quale  quello  talmudico,  sovente giudicato irrazionale. Strumenti di cui il lettore prefigurato dall'autore era ignaro, come ha ricordato Levinas  a  proposito  di  Spinoza. La logica di Ramus presenta il movimento che conduce dal semplice al complesso, dal globale al particolare, come strutturalmente affine alla natura del pensiero umano.  Tanto  il  Ramhal  quanto Lederman  fanno  propri  i  presupposti  di  Ramus  che  ci vengono   presentati   come "fondements naturels de notre raison" (p. 73). Ramhal può cosi operare una sistematizzazione di "tout le débat talmudique en sept parties"(p. 26) e individuarne, nella seconda   parte,  24   topici.   Si   tratta,   dunque,   di   passare   dalla   comprensione del contenuto all'esposizione della forma. Soltanto possedendo le regole che sorreggono il linguaggio talmudico sarà possibile assumerne il valore di merito. Sforzo intellettuale del Ramhal è quindi pervenire all'individuazione degli elementi proposizionali semplici alla base di tutti i dialoghi halakici e delle inferenze che in essi vengono delineate a partire dalle diverse fonti, da quella biblica a quella midrashica passando dalla "preuve naturelle" (p. 63). Sono così delineati due obiettivi: si tratterà in primis di poter ricondurre ogni discussione al rapporto Soggetto – Predicato, presupposto di ogni proposizione dotata di senso compiuto. Dove, nel contesto halakiko, Soggetto sta per Caso e Predicato per Legge. A partire  da  tale  riconduzione, che sembra prossima all'atomismo linguistico con  cui Russell definiva il Wittgenstein del Tractatus, Ramhal passa a proporre un "méthode de lecture” che permetterà di "quitter le discours dialectique pour le narratif" (p. 81), ovvero di lasciare le ambiguità della forma interrogativa per rifarsi all'inequivocabilità dell'asserzione. A partire dalla struttura S-P sarà infatti possibile tradurre ogni passaggio alla forma affermativa e giungere ad una "explication (béur) des propositions" (p. 83). In tale affermazione è possibile riscontrare il presupposto filosofico che muove Luzzato. Se il passaggio dalla forma interrogativa a quella affermativa è visto, in quanto chiarificatore, come neutro rispetto al contenuto ciò vuol dire che la forma dialogica del Talmud, che lo differenzia da ogni altra letteratura giurisprudenziale, non presenterebbe per il Ramhal valore in sé. Il supporto, in altri termini, sarebbe neutro rispetto al contenuto proposizionale. Questa considerazione pare negata, in verità, dallo stesso Ramhal quando afferma che "il faut préserver la juste relation entre toutes les propositions" (p. 70). La riduzione a Soggetto-Predicato, quindi, non può che sussistere in una logica d'insieme: il significato non è più determinato dalla struttura ma dalla funzione o, per dirla con il secondo Wittgenstein, dalle regole d'uso. Il riconoscimento del significato della singola proposizione a partire dal suo inserimento nell'insieme dialogico non toglie che ad essere cifra della proposta metodologica del Ramhal, così come dell'applicazione che in appendice Lederman ne fa in riferimento a Bava Metzia 21a, sia il passaggio dalla forma interrogativa-aperta  a  quella  affermativa. Lederman  è  a  questo proposito inequivocabile:  si  tratta  di  mostrare  le  regole  della  dialettica  talmudica secondo  la logica binaria dove o il predicato (legge) è attribuibile al soggetto (caso) o non lo è. Tale riconduzione del dibattito halakiko al  principio di  non  contraddizione rappresenta una riduzione del carattere dialogico del Talmud? La risposta dipenderà dalla concezione del linguaggio e del pensiero umano che veniamo a formulare. Se con Ramhal e Lederman, pensiamo  che  sia  il  linguaggio  a  riflettere  le  leggi  innate  del pensiero,  allora  la riconduzione di tutte le proposizioni alla struttura binaria corrisponderà all'elevazione del linguaggio al pensiero. Se, differentemente, pensiamo che sia l'uso linguistico a poter incidere sulle forme del pensiero, la riconduzione della struttura dialogica della Halachà al principio di non contraddizione rappresenterà  certo  un'occasione  mancata  per l'educazione di un pensiero, quindi di un uomo, altro. L'esigenza di chiarificazione linguistica del Talmud propostaci nell'opera non può che condurci, allora, a una chiarificazione  dei   concetti  di   conoscenza, natura  umana  e pratica  discorsiva.  La discussione  talmudica sfuma  in  dibattito  filosofico  non  per  perdersi  in  esso  ma  per guadagnare, mediante questi, nuova coscienza di sé.

Cosimo Nicolini Coen