Recensioni
Immagini malgrado tutto
Autore | Georges Didi-Huberman |
Genere | saggio filosofico |
Area | Attività Scientifica |
Casa editrice | Raffaello Cortina |
Anno | 2005 |
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Il saggio di Didi-Huberman è uscito per Cortina nel 2005. Si crede utile porre nuovamente attenzione al testo, per due ordini di ragione, che corrispondono ai due temi portanti del saggio: in primis perché il dibattito sul negazionismo è sfortunatamente attuale, ed è questa la ragione politica, in secondo luogo perché il saggio pone in luce temi rilevanti in ambito estetico e teoretico, che chiamano in causa l'eredità filosofica occidentale e alcuni paradigmi della tradizione ebraica.
Il testo esordisce presentandoci quattro fotografie che Alex, ebreo del Sonderkommando Auschwitz-Birkenau, riuscì a scattare nell'agosto del '44. Tale operazione aveva lo scopo di rendere testimonianza di quanto sarebbe stato, altrimenti, difficilmente credibile, perché, sino ad allora, inimmaginabile. L'operazione si presenta come atto di resistenza per antonomasia, perché finalizzata a impedire la realizzazione dello scopo ultimo dell'ingranaggio nazista: l'eliminazione di ogni traccia della stessa operazione di eliminazione. Atto di resistenza perché produzione di traccia, dunque, ma anche atto di resistenza contro il tentativo di eliminare l'umanità, prima ancora che il corpo fisico, dei deportati. I sonderkommando, destinati allo smaltimento di ogni resto dei corpi fratelli, dimostrarono di restare umani perché, nella produzione di quegli scatti fotografici, si appellarono ad un'umanità esterna ai campi, cui destinare la memoria. Tali uomini, cui era impedito di immaginare un futuro alla loro propria vita, riuscirono a immaginare il futuro della vita dell'uomo e in tale atto d'immaginazione, declinatosi nella produzione del fotogramma, scamparono all'asservimento ultimo. A questo gesto di resistenza Didi-Huberman si rivolge, in qualità di filosofo e storico dell'arte, richiamandoci alla necessità di un uso consapevole di tali immagini che, per essere comprese nella loro forma, devono essere lette in relazione all'atto che le rese possibili. Tale chiarimento è essenziale, pena leggere i diversi riferimenti dell'autore come appesantimento gratuito, fuorviante rispetto al primigenio senso politico sopra detto.
E' la forma stessa delle foto a sollecitare lo sguardo a un'interpretazione critica. La lacunosità di tali fotogrammi mette di fronte a due alternative: o tale lacunosità è indice della loro povertà, e allora esse vanno scartate o modificate, oppure essa è indice delle condizioni con cui vennero scattate e allora vanno assunte come prova, limitata rispetto all'evento nella sua totalità, ma proprio per questo autentica. Nella loro forma, priva di prospettiva regolare, con ingombranti zone d'ombra, ritroviamo il movimento concitato del soggetto che compì gli scatti, l'impossibilità di una presa ferma, di un'immagine stabile. Le zone d'ombra, afferma l'autore, rappresenterebbero l'interno della camera a gas, appena svuotata dai corpi, ora ammassati e su cui si sta operando una cremazione a cielo aperto (p. 26). Proprio la forma venne nella prima ricezione dei fotogrammi ignorata cercando, mediante il ritocco, di levare l'effetto sfumato (p. 55), dettato dal movimento, e togliendo le parti scure o incomprensibili (confronta p. 28 con p. 54), come il frammento di cielo intervallato dalle betulle: apparentemente senza senso, in realtà decisivo per comprendere la verità della situazione, ovvero la temporalità cui l'immagine rimanda. Il ritocco rappresenta precisamente l'approccio che Didi-Huberman vuole evitare e che rischia di condurre all'immagine feticcio. Togliere le parti ritenute marginali, frammentarie, significa sottrarci al compito di comprendere l'immagine nel gesto che l'ha prodotta, riducendola ad icona adatta al nostro sguardo, fermo e prospettico, irrimediabilmente lontano dal gesto fotografico di Alex, deformato dall'angoscia di essere scoperto. Forma e contenuto paiono quindi inscindibili. La prospettiva è ancora una volta, come scrisse Panofsky sulla falsariga di Cassirer, forma simbolica: dove la differenza ottica non è qui dettata dalla dimensione culturale ma dalla condizione esistenziale. Ciò che l'autore intende con conoscenza per immagini, dunque, non è comprensibile se non a partire dallo statuto che si fornisce all'immagine stessa. Questa se assunta, come nel caso presente, in relazione al gesto fotografico, è immagine che appella il soggetto recettore a interpretazione critica, ovvero a uno sguardo arricchito dalla ragione. In altri termini qui l'immagine non svela l'essenza, né della Shoah né, più in generale, di qualsiasi altro oggetto di conoscenza ma è strumento, tra gli altri (nel caso della Shoah insieme ai racconti dei sopravvissuti, ai documenti ecc), per approcciarci all'oggetto. Il testo si inoltra così in questioni teoretiche che, nel dibattito di opinioni che tali immagini scatenarono, hanno evidenti ripercussioni etiche. E' possibile conoscere per immagini? Cosa comporta tale tipo di conoscenza? La critica muove da presupposti che l'autore non esita a fare propri: la società occidentale contemporanea è satura di immagini, ivi comprese quelle inerenti la Shoah. La verità di tali presupposti non toglie la falsità delle conclusioni che sembrerebbero rispondere a tale problema con l'equazione immagine-idolatria. L'accusa mossa a Didi-Huberman si vorrebbe presentare, infatti, come rinnovamento del divieto biblico ora declinatosi nell'imperativo del "non ti farai immagine.." della Shoah. Solo una conoscenza epurata da ogni figuratività, sostengono i suoi critici, può permettere di evitare la banalizzazione commerciale. Al di là delle articolate risposte dell'autore, tale accusa pare, proprio in riferimento alla tradizione ebraica, fuorviante. In primo luogo è necessario ricordare che il divieto biblico fa riferimento a Dio. Sicché sostituire il riferimento del divieto da Dio alla Shoah significa approcciarsi all'evento storico in termini biblico-halakici. Tale deriva è precisamente quanto la riflessione ebraica post Shoah vorrebbe evitare. L'ebraismo, si afferma in primis in ambito rabbinico, non deve divenire religione della Shoah, culto della morte, dal che ne seguirebbe che è possibile farsi immagine della Shoah proprio perché quest'ultima non è evento che concerne il trascendente bensì il contingente. Si potrebbe però replicare che il divieto è assunto nella tradizione successiva come modus operandi generale. Non farsi immagine del divino significherebbe operare e conoscere in senso non idolatrico, quindi evitando la resa a immagine di qualsiasi oggetto di conoscenza. Tale tesi risente di una mancata interpretazione del testo biblico: se è lecito generalizzare il divieto è però necessario comprendere che questi non si riferisce al prodotto in quanto tale ma alla modalità produttiva soggiacente, responsabile di scambiare il mezzo di conoscenza per l'oggetto ultimo della stessa. Di contro, tornando all'autore, se "l'immagine non è tutto" (e quindi è "malgrado il tutto") diviene strumento, non risultato, quindi "soglia" e non luogo di corrispondenza all'oggetto stesso. Il filosofo muove verso questa concezione a partire dall'"atlante Warburg" e dall'operazione di "montaggio" che lo caratterizza. L'immagine è così pungolo alla comprensione, "strappo" e non già "velo" perché, con Sartre, "atto" e non "sintesi". Il rifiuto dell'immagine parziale, all'opposto, viene ad essere indice di un pensiero intrappolato nella concezione totalizzante, che si può declinare o nell'assuefazione all'immagine feticcio (i fotogrammi ritoccati, così come la cultura mediatica contemporanea) o nella negazione di ogni immagine, perché necessariamente ritenuta feticcio. Il riconoscimento della parzialità di ogni fonte si vuole propedeutico a una conoscenza dialettica che permetta di arricchire il nostro rapporto ai fatti, superando l'unilateralismo di una parola che si vorrebbe in diretto riferimento all'essenza, esente da ogni rapporto alla materialità. Il dibattito su immagine e Shoah viene quindi affrontato da Didi-Huberman a partire dalla collocazione di quest'ultima nell'ambito della trascendenza emunà (fede) o dell'immanenza dicibile, dove, si è sollecitati ad aggiungere, la temunà (immagine), il “farsi immagine dei fatti”, diviene non solo possibile ma, come testimonia la produzione grafica dei sopravvissuti, atto necessario, prima ancora che per la memoria, per trasferire il vissuto su un supporto esteriore, dove l'evento possa divenire riconoscibile, gestibile e, quindi, per quanto mai estraneo, conoscibile. Cosimo Nicolini Coen
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