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דבר Il ritorno della sapienza antica - articolo di Rivista

AutoreGiovanni Sias
Generesaggio
AreaAttività Scientifica
Anno2013


Giovanni Sias, דברIl ritorno della sapienza antica, «Enthymema», IX 2013.
http://riviste.unimi.it/index.php/enthymema/article/view/3600
 
“Ogni lingua è intraducibile”; con questa riflessione di Andrea Zanzotto, lo psicanalista Giovanni Sias inaugura la propria interrogazione sul valore ed il senso di un percorso terapeutico. Una riflessione che potrebbe estendersi ad ogni forma di Linguaggio, che, come ci ricordava già il Wittgenstein del Tractatus, non può essere definito perché presupposto. Ogni Linguaggio è il fondamento di una precisa forma di scrittura (il rapporto potrebbe anche ribaltarsi) non traducibile in altri contesti. Come tradurre, ad esempio, la scrittura matematica in un Linguaggio diverso? Ogni tentativo, pur dotato di senso, apparrebbe quantomeno improprio. Ciò vale tanto più nel lavoro analitico, dove si è chiamati a tradurre dei dati esperienziali, che acquistano significato solo all’interno di un tessuto soggettivo: “Un sogno non troverà mai una interpretazione esaustiva, e quindi ogni presunta traduzione è di per sé insufficiente […]” (p. 6). Ogni traduzione, dice Sias, è una “caduta”, ossia un passaggio da un Linguaggio ad un altro. Il risultato di una traduzione può solo essere un ricordo dell’originale, così come l’eco è un ricordo del suono che la ha generata. L’illusione della corrispondenza, verso cui già Heidegger aveva ammonito, è una superstizione, anzi la superstizione che ha dato vita alla cultura occidentale, non a caso sfociata nell’ansia verificazionista del sapere scientifico. Con Nietzsche, si è svelata una volta per tutte la volontà di dominio dietro questa apparente “neutralità”. Ma se la corrispondenza è strutturalmente impossibile, cosa significa tradurre? Cosa entra in gioco nel passaggio da Linguaggio a Linguaggio?
 
E allora: chi è il traduttore? S’intende, comunemente, colui che traduce, che trasferi-sce un testo da una lingua a un’altra. Ma un senso letterario, non più di moda, indica co-lui che «tramanda». Quasi più nessuno dei dizionari attuali riporta questo termine, e ciò è curioso, e non solo per il costante impoverimento dei sinonimi della nostra lingua di cui molti hanno parlato. «Tradurre» come sinonimo di «tramandare» ci introduce a un senso differente del termine traduttore, il quale non è tanto colui che traspone da una lingua a un’altra, che tramanda, che veicola da un luogo a un altro, da un tempo a un altro, da una persona a un’altra: colui che si fa ponte fra le lingue. È colui che ospita, nella propria, l’altra lingua.
Quella del traduttore è l’arte, e la missione, di chi si allontana (e ci allontana) dalla lingua madre per raggiungere un altro pensiero formulato in un’altra lingua. Come ogni arte (e come ogni ponte) richiede una grande tecnica, e non c’è téchne che non abbia i suoi motivi nel sacro. D’altra parte, come non avvertire che il tramandare è un’azione sacra?(p. 7).
 
Il riferimento al sacro indica il punto di convergenza fra tutte le sapienze che del linguaggio hanno fatto esperienza. Fra tutte, Sias riconosce un ruolo preminente alla cultura ebraica, che nell’impronunciabilità del nome divino individua quel luogo inattingibile che è anche la fonte più vicina, e nella pratica della parola vede non un improbabile meccanismo di corrispondenza, ma un tragitto che porta l’individuo ad abbandonare le certezze apparenti per giungere a quella soglia in cui si ode il silenzio su cui poggia ogni parola. Ed il pensiero va immediatamente al Libro di Enoch, alle pratiche mistiche di Abulafia, all’Intelletto Agente di Maimonide. Più in generale, aggiungiamo noi, non può passare inosservata la vicinanza fra la psicanalisi di Sigmund Freud e l’antica sapienza ebraica, la quale si fonda su quello “scemà bekolì” (ascolta nella mia voce) sempre presente nella Torah nei momenti di sviluppo del racconto e che sembra proprio il modo in cui la psicanalisi ha insegnato alla modernità ad ascoltare il linguaggio. Del resto, Sias ricorda le parole che Anna Freud cita a Gerusalemme nel 1977: “La psicanalisi è scienza ebraica”. Un invito a riconoscere i fondamenti ebraici di un sapere, che per legittimarsi davanti alla comunità scientifica (tentativo, tra l’altro, scarsamente riuscito) ha voluto utilizzare categorie greche. Un punto da cui partire per avvicinarsi a quel luogo del sacro circoscritto dalla parola davar. Con una avvertenza: “scienza ebraica” non era anche la definizione nazista? Molto è ancora da pensare sui segreti del linguaggio, sul suo uso e sul suo incantesimo seduttivo.
 
Davide Assael