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Novità editoriale: La testimonianza della rivelazione cristiana

Approfondimenti

È ora disponibile il libro di Fabrizio Renzi, La testimonianza della rivelazione cristiana (Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, 2017). Abbiamo interpellato l’autore, dottore di ricerca in filosofia e studioso di gnoseologia e di metafisica per comprendere meglio l’obiettivo dell’opera e a quali domande vuole rispondere.
L’obiettivo del mio libro è di proporre un’interpretazione metafisica della fede nella sua accezione testimoniale dopo la sua decostruzione, in particolare ad opera di autori come Heidegger, Rahner, Derrida e Vattimo. A tal fine, in primo luogo, evidenzio che la fede è una delle caratteristiche fondamentali del comportamento sociale dell’uomo. La maggioranza delle conoscenze umane si basa sulla fede: ricorrere alla testimonianza sta alla base della vita sociale e della comunicazione interumana. Non solo. La funzione fondamentale che la conoscenza testimoniale esplica nel contesto della comunicazione interumana non può non investire l’uomo nella sua stessa essenza. Detto questo, sottolineo la necessitàdi evitare due estremi. Da un lato, non si può non riconoscere alla fede una dimensione cognitiva. Il fine che si vuole conseguire nel fare affidamento all’autorità di altri soggetti è pur sempre il sapere come stanno effettivamente le cose. Dall’altro lato, non si può risolvere ogni livello cognitivo in quello che si può conseguire attraverso un atto di fede.
 
A proposito della dimensione cognitiva della fede, da quali concetti prende le distanze?
Prendo le distanze sia dal razionalismo sia dallo scetticismo. In primo luogo, il fatto che le verità di fede non si impongano apoditticamente come le verità scientifiche non significa che esse sfuggano ad ogni controllo razionale, come pretende Severino. In secondo luogo, critico Derrida, il quale, evidenziando che il testimone è colui che sopravvive al di là del fatto testimoniato, arriva a sostenere l’inverificabilità strutturale di ogni testimonianza. Tenendo conto del fatto che la persuasione è la nota costitutiva dell’argomentazione retorica e che la persuasione (e, in generale, l’intenzione di provocare una qualche reazione nell’interlocutore all’interno di una determinata situazione) stanno alla base di ogni forma di comunicazione, cerco inoltre di far rientrare la logica della testimonianza all’interno della logica dell’argomentazione retorica. La fede può essere vista come la conclusione di ragionamenti retorici, ossia il risultato di una ricerca che tiene conto del contesto.
 
Che la fede sia ingiustificabile razionalmente è una tesi sostenuta da Heidegger, uno dei principali pensatori che sostiene la necessità di sospendere il conoscibile oggettivo…
Il punto è che il filosofo tedesco, sospendendo il conoscibile oggettivo, finisce per sospendere al contempo la fede testimoniale. In ogni caso, poiché la fede si configura come una particolare forma di razionalità situata, la stessa analisi heideggeriana delle passioni rappresenta entro certi limiti un valido criterio ermeneutico per dar conto del fenomeno della testimonianza. D’altronde, la tematizzazione heideggeriana del “sentirsi situato” può essere vista come una sorta di trasposizione sul piano ontologico di una delle “ragioni probatorie” di cui si avvale l’oratore per persuadere l’uditorio.
Visto che, quando ci si richiama polemicamente all’obiettività o alla razionalità, ci si riferisce alla verità come adaequatio rei et intellectus, mi chiedo se effettivamente sia legittimo rinunciare a parlare di “adeguazione veritativa” a proposito della fede. Si tratta di una questione a cui si può rispondere solo in modo articolato. Se è indubbio che la verità testimoniale non dà luogo ad una conoscenza diretta della “cosa”, quest’ultima viene pur sempre appresa attraverso la conoscenza che il fedele acquisisce della qualità morale – riconoscibile dalla condotta, dai fatti compiuti – della persona del testimone, qualità che fornisce un motivo razionale per credere.
 
Come assume il testimone il ruolo centrale nell’ambito della fede?
Prendo le distanze da tutte quelle prospettive filosofiche che finiscono per connotare la verità in termini impersonali. Da questo punto di vista, la posizione di Heidegger è emblematica, nella misura in cui riassorbe la verità concreta del singolo soggetto conoscente nella verità trascendentale dell’essere in generale. Il privilegio accordato da Heidegger alla verità trascendentale corre parallelo al problema fondamentale che attraversa tutta la speculazione del filosofo tedesco: la determinazione dell’unità dell’essere rispetto all’analogia dei suoi diversi significati. Il problema è che Heidegger, concependo l’essere in modo univoco, non solo non può distinguere l’essere dalla verità, ma non può neanche ammettere i diversi generi di verità. Come l’essere si dice in molti sensi, così la verità si dice in molti sensi. Si tratta di un’osservazione importante, perché coinvolge la stessa possibilità di riconoscere la validità della verità testimoniale. Infatti, solo se si tiene ferma l’analogia dell’essere, e con essa l’analogia della verità, si può evitare di risolvere il genere di verità conseguibile per via indiretta (attraverso la mediazione di altri soggetti) nel genere di verità conseguibile per via diretta. Nel corso di un seminario che ha avuto luogo a Zurigo nel 1951, Heidegger dice che se dovesse ancora scrivere una teologia «la parola ‘essere’ non dovrebbe apparirvi» e che «la fede non ha bisogno dell’essere». Sono parole su cui avrebbero dovuto riflettere quegli autori che, in sede di analisi della fede cristiana, hanno adottato l’impostazione heideggeriana, come per esempio Karl Rahner.
Come in Heidegger, anche in Rahner, la verità si configura come un generico “dato a sé”, e non come la particolare proprietà di un determinato e situato soggetto che pensa correttamente in un determinato momento. Per entrambi, il luogo della verità non è il giudizio con cui il singolo si adegua in determinate circostanze ad un particolare aspetto della realtà, ma è la realtà stessa nella sua dimensione trascendentale. Ora, il rifiuto della verità come “adeguazione veritativa” da parte del teologo di Friburgo si riflette sul modo in cui concepisce la fede. Nella teologia rahneriana, l’atto di fede non è l’adesione del credente a un particolare enunciato avente per oggetto una res inevidente all’intelletto del credente stesso, ma evidente a quello del testimone. Rahner non riconosce l’effettiva struttura logica che compete all’atto di fede (quella struttura per cui esso dà luogo a una conoscenza acquisibile per via indiretta).
 
Quindi quale rapporto sussiste tra oralità e scrittura parlando della testimonianza?
Stando alla filosofia di Derrida, la pretesa cristiana di essere, non la religione di «una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente» non potrebbe avere alcuna portata veritativa. Secondo il filosofo di Algeri, la superiorità della voce viva rispetto alla scrittura è solo correlativa a un determinato orizzonte culturale, quello dominato dalla “metafisica della presenza”. Orbene, in considerazione dell’enorme valore che il Magistero accorda alla metafisica (insieme all’ascolto della Parola di Dio), giova analizzare l’interpretazione derridiana della filosofia occidentale. Al riguardo, evidenzio che lo schema interpretativo di Derrida in base al quale la metafisica occidentale si regola sulla “logica dell'opposizione” è criticabile. 
Se la “metafisica della presenza” consiste in una serie di imposizioni culturali – come il centro, la verità o l’autorità –, e se la religione cristiana è dominata da tale metafisica, sembra difficile che la Chiesa possa instaurare un sincero dialogo interreligioso. Vattimo, per esempio, definisce il legame tra il cristianesimo e la metafisica come un’alleanza capace di produrre violenza.
 
Quale rischio si può incontrare se si prendono le distanze dal concetto di metafisica?
Al di là dell’atteggiamento surrettiziamente violento del pensiero debole, il rischio di coloro che reputano superata la metafisica è quello di uniformare sotto un’unica categoria – quella per l’appunto di metafisica – posizioni inconciliabili. Alla luce di un solo schema interpretativo, si cancellano le differenze e si rinchiudono entro grandi orizzonti destinali tesi filosofiche tra di loro irriducibili. Significativa è l’interpretazione derridiana del concetto husserliano della temporalità, interpretazione secondo cui non è possibile «una presenzialità a sé priva di rinvio». Al riguardo, mi chiedo se la fenomenologia husserliana costituisca – come pretende Derrida – «il progetto metafisico stesso nel suo compimento storico».
 
E come si posiziona la religione cristiana in questo contesto?
La perplessità circa la necessità che la religione cristiana prenda le distanze dalla metafisica scaturisce non solo dall’analisi diretta delle diverse filosofie, ma anche dalla considerazione di ciò che la stessa religione cristiana è nei suoi contenuti autentici. Sotto questo profilo, degna di rilievo è l’idea secondo cui nel Cristianesimo si trovano i germi della secolarizzazione. In base a tale idea, si potrebbe sostenere: solo se il Cristianesimo facesse proprio il relativismo dell’odierna società, potrebbe far emergere il suo genuino messaggio, incompatibile con tutta quella serie di imposizioni culturali che hanno contraddistinto la metafisica nel corso dei secoli. Ora, quello che metto in questione non è tanto la relazione tra cristianesimo e secolarizzazione, ma l’ipotesi secondo cui il centro, la verità o l’autorità sarebbero forme di imperialismo emerse con la nascita in Occidente della metafisica. Al riguardo, è sufficiente pensare all’Unicità di Cristo, la quale sembra che non si accordi con il relativismo.
In ogni caso, l’ordine di fare di tutti i popoli i propri discepoli per insegnare loro ciò che solo Cristo ha comandato non è – per usare un’espressione di Papa Ratzinger -«una specie di colonialismo ecclesiale, con cui vogliamo inserire altri nel nostro gruppo»? Di fronte a tale obiezione, ricorro in ultima istanza a considerazioni metafisiche, mettendo in rilievo – tra le altre cose – che i testimoni di Cristo non sono degli elementi qualitativamente identici, come sono degli elementi qualitativamente identici i differenti casi di uno stesso numero in matematica o i differenti casi di uno stesso genere in logica. Come cose metafisicamente diverse sono diverse in se stesse, ossia in virtù della propria forma e non in virtù di qualcosa di identico rispetto a cui si differenziano, così coloro che pervengono alla decisione di appartenere al Signore rimangono in se stessi dei soggetti diversi, senza che questa loro decisione li uni-formi all’interno di uno stesso gruppo.
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