Recensioni

Diario Noachide. Un non-ebreo ai piedi del Sinai

AutoreRaniero Fontana
Generediario
AreaAttività Scientifica
Casa editriceGabrielli editori
Anno2015


La ricerca di Raniero Fontana è icasticamente rappresentata dalla domanda “qual è il posto del non ebreo ai piedi  del Sinai?” che ispira il sottotitolo del volume. Una ricerca esistenziale e filosofica (ma l’Autore preferirebbe forse aggiungere teologica) condotta a partire dall’imperativo di “smettere di interpretare Israele” e di iniziare, invece, “ad ascoltarlo”. Imperativo etico, prima ancora che teoretico, poiché, come ricorda Fontana, la Chiesa post-conciliare è passata dall’interpretare Israele “con la categoria della sostituzione” all’interpretarlo con “la categoria del mistero”, reiterando così un atteggiamento che le impedirebbe di cogliere Israele nella sua concreta vitalità, all’infuori di ogni sistema teologico altro. Difficoltà espressasi in particolar modo nella relazione dello Stato Vaticano con quello di Israele, il cui riconoscimento avverrà solo nel 1993 proprio nelle sale del Centro Ratisbonne ove Fontana si è formato e ha insegnato. Non deve dunque stupire che l’esigenza di “ascoltare Israele” abbia portato Fontana, dopo gli studi universitari in Italia, a Gerusalemme. Ivi Fontana risiederà, prima come studente, oltre al sopra citato Centro Ratisbonne, all’Ulpan e alla stessa Hebrew University, poi come studente e ricercatore presso l’Istituto Hartman. Usiamo il termine risiedere in senso non casuale. E’ tale verbo quanto più si avvicina al termine di “ger toshav” (straniero residente) con cui l’Autore si colloca sia in riferimento all’Alleanza sia in riferimento alla società israeliana, con esiti alterni. Fontana è infatti convinto che “i problemi relativi al non-ebreo nella società ebraica moderna abbiano radici antiche”, a partire dal Sinai. E’ dunque da straniero (lo statuto di residente arriverà molti anni dopo) che Fontana inizia a studiare la tradizione ebraica “dall’interno”, come egli ama dire in riferimento alle attività del Centro Ratisbonne, di cui il libro fornisce il profilo ricordandone la chiusura a causa di decisioni arbitrarie da parte vaticana. Nelle sale di Ratisbonne e poi dell’Istituto Hartman, attraverso incontri in cui –come segnalato da A. Rathaus nella sua introduzione- “il frammentario dell’evento parla in nome del sistematico dell’idea”, vediamo l’Autore progressivamente dismettere i panni del cristiano per indossare quelli del non-ebreo, della singola persona posta di fronte al problema dell’Alleanza. Fontana, in effetti, i panni del cristiano non li butta. Dismetterli significa, invece, porsi di fronte al Berit (Alleanza) di Israel senza rivendicare un Berit Hadash –termine ebraico per Nuovo Testamento-, bensì interrogandosi sul proprio ruolo in rapporto all’Alleanza che costituisce l’eredità di Israel e dietro la quale appare in filigrana, nella stessa narrazione biblica e poi in quella talmudica, il patto noachide. E’ dunque a quest’ultimo che l’Autore dedicherà le sue attenzioni, per essere però presto deluso perché la categoria di “bene noah”, che aveva ricevuto importante sviluppo nei lavori di Benamozegh, sembra destinata nell’Israele contemporanea ad essere appannaggio solo di alcuni gruppi della destra religiosa. Pure il riferimento noahide rimane a titolo del libro a segnalare come l’ascolto di Israele sia finalizzato per l’Autore a comprendere il suo posto -il posto del non ebreo e dunque dell’umanità esterna a Israel- “ai piedi del Sinai”. Ciò che conta sottolineare, perché cifra del percorso di Fontana, è in che misura questa domanda (che di primo acchito non può che inquietare l’ebreo abituato a scorgervi l’antica accusa di esclusivismo), sia posta dall’Autore a partire da un’intera esistenza dedicata all’“apprendimento delle regole e del linguaggio” con cui condurre il confronto tra ebrei e non-ebrei sui significati della Torah. Non è un puro aggiustamento metodologico è, invece, un cambiamento radicale di prospettiva che pone il problema dell’Altro dall’interno o, meglio, dalla soglia.
Ciò detto, i problemi restano. Questo emerge in modo particolarmente evidente quando Fontana viene ammesso a studiare –fatto alquanto inusuale- in una yeshivà (ordotossa). E’ proprio in questo contesto che Fontana sente di non essere mai “stato al contempo tanto vicino e tanto lontano da Israele” poiché la sua presenza non è “indispensabile alla vita interna della scuola né per lo studio né per la preghiera”. l’Autore è così condotto a concludere che “l’ascolto di Israele introduce alla solitudine della sua [ di Israele ] esistenza”. Il minian (quorum di dieci ebrei necessario per poter svolgere la funzione), pure non menzionato dall’Autore, sembra poter qui essere la parte per il tutto. Minian è il confine invisibile che, posta la presenza di non ebrei nel beit haknesset (sinagoga), corre tra ebreo e non ebreo. E’ il momento della divisione, della distinzione che andrebbe quindi contro quanto da Fontana sollecitato quando afferma che “funzione dei confini è quella di essere attraversati” ricercando così nel dialogo tra ebreo e non-ebreo quel “ponte capace di sormontare le differenze e di farci attraversare così le distanze più grandi”. Diremo allora che il dialogo, qui, non può prescindere dal confine, pena sormontare, in nome del dialogo, una delle parti e, con essa, il concetto stesso di parte, di limite. Colui che ha condiviso i destini di Israel viene così a soffrire della propria condizione di “ger toshav” (straniero residente) interrogandosi “con non poca sofferenza” sulla “considerazione del non-ebreo nell’ebraismo”.
Si ritorni, allora, al minian: al confine tracciato, alla distinzione posta. Ciò che lo Straniero qui non sembra cogliere è la necessità vitale di tale confine: necessità della minoranza in esilio, certo, ma anche del popolo in mezzo ad altre genti. Si potrà pensare che tali considerazioni presentino una caduta empiristica rispetto ai problemi filosofici posti. La necessità della distinzione e della distanza, della separazione, viene invece a riprendere gli interrogativi di Fontana sul rapporto tra universale e particolare. Il problema, in effetti, è non leggere tale distinzione come separazione del particolare rispetto all’universale; come preservarsi di un’identità, ripiegata sui propri confini, fronte a verità comuni, esterne. La distinzione rimanda invero a un modo di  far venire in essere l’universale a partire dalla condizione specifica, da un luogo e in un nome proprio. Qui è da scorgere tutta la differenza tra ghetto e minian: il primo chiude il particolare fuori dalla società; il secondo è il modo in cui la tradizione ebraica intende vivere la propria presenza e il proprio contributo nel consorzio umano. Un ascolto che inauguri il superamento di ogni confine presenterebbe, nell’assenza di distinzione, nuova totalità. Il punto, a un livello più teorico pure sempre sottointeso nella relazione tra le genti e Israel, è provare a intendere il confine non già come sottrazione di spazio comune -particolare detrazione rispetto a un valore universale- bensì come fattore propulsivo e intensificatore di quella volubile comune dimensione che è l’umanità.  Fontana probabilmente non condividerebbe, così come non condivideva l’opzione ricordatagli da A. Goshen-Gottstein di un incontro tra Israel e le genti nello spazio della “chochmà” (Saggezza). Ribadita la distinzione di Israel non come modalità della solitudine, bensì come pratica della partecipazione, resta la validità dell’interrogativo di Fontana circa il significato del “ger toshav” (Straniero residente). Nella fattispecie poiché tale interrogativo non è solo proprio alla halakà, ma anche inerente a Israele. Quest’ultimo sull’halakà certamente non si basa, ma, come è evidente a partire dalla sua costante preoccupazione demografica, riflette il problema -sopra visto con riferimento al minian- della distinzione che così, da teorico, ritorna politico. Che dunque dentro le case di studio, nei confini di Israele, pure fuori dal minian e senza poter aspirare a fare della propria residenza in Israele una alyà (termine con cui si intende il ritorno ebraico e la conseguente acquisizione di cittadinanza), vi siano voci non ebraiche come quelle di Fontana, rappresenta un’occasione di ascolto che spetta a Israele cogliere. E’ importante sottolineare che tale occasione si specifica in due modalità differenti. Nel caso del non ebreo nelle case di studio vi è per Israel l’occasione di ascoltare colui che, proprio nei confronti di Israel, si è posto all’ascolto. In tal senso, concretamente, Israel ha da apprendere –per esempio- dagli studi di Fontana sul noahdismo (diversi i volumi in italiano) e su A. Neher (per A. Michel, 2015). Nel caso del non ebreo all’interno di Israele la collettività ebraica ha l’occasione di guardare al ger toshav (Straniero residente) come sprone a fare della propria ritrovata sovranità l’occasione di accoglienza, dunque garantendo l’equilibro tra l’ebraicità dello Stato di Israele e il suo carattere democratico.
  
Cosimo Nicolini Coen